Arquata, la ferita del terremoto: «Sei anni nelle casette. E intanto i giovani sono scappati»

Arquata, la ferita del terremoto: «Sei anni nelle casette. E intanto i giovani sono scappati»
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ARQUATA - Un boato nel cuore della notte, la lunga scossa, i crolli. In un minuto c’è chi ha perso tutto: gli affetti più cari e la casa con i ricordi di una vita sepolti sotto le macerie. A distanza di sei anni da quella tragedia, la condizione in cui sono costretti a vivere i terremotati di Arquata è ancora assai complicata: il dolore per le persone care perse a causa del sisma non si è placato e l’obiettivo di riuscire finalmente a rientrare nelle proprie abitazioni ricostruite è ancora lontano.

 

Da cinque anni, c’è chi ha deciso di non recidere definitivamente il legame con il proprio territorio e ha accettato di vivere nelle casette. 


I disagi


«Vivere così, significa vivere fuori casa - dice Vinicio Paradisi, presidente dell’associazione “Pescara del Tronto 24/08/2016”, che da cinque anni, insieme con tanti suoi compaesani vive in uno dei prefabbricati messi a disposizione degli sfollati - lontano da quelle che fino a quella notte erano le nostre abitazioni da anni, costruite con i sacrifici. Senza agi e in una situazione precaria a cui dobbiamo purtroppo rassegnarci dal momento che dovremo rimanerci ancora per diversi anni». C’è amarezza nelle parole di Paradisi che non dimentica le difficoltà che lui, insieme alla sua famiglia e a tutti i terremotati, da sei anni affronta quotidianamente. «Il momento più difficile è stato sicuramente quello dei primi mesi - ricorda -. Eravamo allo sbando, sfrattati dalle nostre case e costretti a trovare in fretta un alloggio provvisorio. Chi si è trasferito verso il mare, chi in albergo mentre altri hanno trovato soluzioni diverse». Il primo anno è stato veramente difficile, fino a quando non sono stati realizzati i villaggi Sae. 


La scelta


«Quando finalmente abbiamo avuto a disposizione le casette - continua Paradisi - molti di noi hanno deciso di restare e di non abbandonare il territorio. Altri, invece hanno fatto una scelta diversa». Ma adesso qualche dubbio comincia ad affiorare: «In quel momento, che quella delle Sae sarebbe stata una sistemazione provvisoria che sarebbe durata pochi anni e abbiamo fatto una scelta di cuore per tenere in vita le nostre zone ed evitare lo spopolamento ben sapendo che chi si è trasferito da un’altra parte, soprattutto se hanno i figli in età scolare, difficilmente farà ritorno ad Arquata. In questi anni, hanno cambiato le loro abitudini, i più giovani sono cresciuti in un altro contesto, hanno stretto nuove amicizie e sviluppato interessi diversi - sostiene Paradisi -. Ma sicuramente stanno meglio di noi, potendo beneficiare del contributo autonomo di sistemazione (Cas)». 


I contraccolpi


La lentezza della ricostruzione sta avendo dei contraccolpi sulla comunità arquatana anche dal punto di vista sociale: «La cosa che più mi preoccupa è che in questi anni è cresciuto il disaccordo tra concittadini, dal momento che la ricostruzione è ancora lunga. Ma noi che abbiamo fatto questa scelta, non perdiamo la speranza poichè tutti i sacrifici fatti fino ad ora sarebbero solo stati una perdita di tempo». Sono passati sei anni ma ferita provocata dal terremoto resta ancora aperta. 

 

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Corriere Adriatico