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OFFIDA - «C’è una inutilizzabilità assoluta dei risultati analitici e quindi diciamo non c’è materia perchè questo processo sia stato iniziato e debba proseguire». A dirlo è l’avvocato Francesco Voltattorni che, insieme con i colleghi Tommaso Pietropaolo e Luca Filipponi, difende Leopoldo Wick, l’infermiere della Rsa di Offida accusato di aver ucciso otto ospiti della struttura e del tentato omicidio di altri quattro anziani.
La catena
La catena di conservazione dei reperti, le modalità dei prelievi effettuati sulle vittime su cui sono stati poi eseguiti gli esami tossicologici e la comparazione dei valori riscontrati in sede di laboratorio sono stati al centro del dibattimento in aula davanti ai giudici della corte d’assise di Macerata dove ieri mattina è ripreso il processo. Dopo che la scorsa settimana erano stati sentiti i tre consulenti tecnici d’ufficio nominati dal tribunale sostenendo che nella maggioranza dei casi presi in esami ci sia la probabilità che le intossicazioni rilevate dai campioni prelevati o l’inappropriata somministrazione di farmaci, in qualche caso non presenti nei piani terapeutici, possano aver concorso al decesso degli ospiti della casa di riposo.
I capisaldi
Per i difensori di Wick, dunque, sono venuti a mancare i capisaldi dell’accusa Tesi ribadite anche dai due periti nominati dall’Asur Marche chiamato in causa come responsabile civile. La professoressa Donata Favretto, tossicologa forense dell’università di Padova e la dottoressa Alessia Romanelli, medico legale dell’Asur Marche in servizio nell’Area Vasta 4 di Fermo sebbene in fase dibattimentale sono state controbattute con veemenza dal Pm Umberto Monti e contestate anche dagli avvocati delle parti civile. «I consulenti di parte stanno facendo il loro lavoro - dice l’avvocato Mauro Gionni, uno dei legali che rappresenta i parenti di alcune ospiti della struttura deceduti e che si sono costituiti in giudizio -. Sulla catena di conservazione, però, alcune questioni mi sembrano un po’ eccessive: dire che una provetta che è contenuta all’interno di una busta, il cui nome della vittima sia leggibile solo sulla busta e non più sulla provetta, sostenere che è dubbia la conservazione e dubbia l’appartenenza mi sembra veramente eccessivo». Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico