SENIGALLIA - Il tentativo di ‘ricatto’ a luci rosse dopo i contatti intimi on line tramite Skype. Quello che all’inizio era sembrato un rapporto virtuale sereno...
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La brutta sorpresa arrivò nell’ottobre 2012 per una 35enne dell’hinterland senigalliese che però non cedette al tentativo pressioni e alle minacce e denunciò tutto alla Polizia Postale. Ieri il Tribunale di Ancona ha condannato C. P. 30 anni, romano, a dieci mesi di reclusione, pena sospesa per tentata violenza sessuale. I fatti risalgono al 2102 quando la donna intrecciò una conoscenza virtuale l’uomo che si era presentato come Edoardo e che aveva come nickname Thefreddopesca.
Un nomignolo rassicurante che il misterioso interlocutore sembrava meritarsi. Per circa un anno, dal 2010, i due navigatori del web si erano scambiati confidenze fino ad arrivare all’intimità. L’imputato aveva convinto la donna a mostrarsi in topless inquadrata dalla webcam. Lui, invece, non era andato oltre l’invio di una semplice foto e non si sa quanto veritiera.
Le richieste a un certo punto, però, qualcosa si era rotto nel meccanismo che reggeva il gioco e i rapporti si erano interrotti. Verso settembre 2012, però, il 30enne era tornato alla carica sempre più insistentemente. Quando aveva capito che la sua ex partner virtuale non avrebbe accettato le sue avance on line, aveva iniziato ad alzare i toni. «Ha cercato anche di telefonarmi ripetutatamente - ha raccontato in aula la parte offesa - Minacciava di divulgare le mie foto, di uccidere e fare del male ai miei famigliari».
Circostanze che avevano indotto il pm Ruggiero Dicuonzo a contestare inizialmente anche l’accusa di tentata estorsione, un addebito poi assorbito dall’accusa di tentata violenza sessuale: al termine del processo aveva sollecitato l’applicazione di 1 anno e 8 mesi di carcere.
La 35enne, comunque, non cedette alle pressioni dell’uomo e si rivolse alla polizia. Gli agenti della Postale risalirono all’indirizzo Ip del misterioso “thefreddopesca” e sequestrarono in un appartamento di Roma il personal computer da cui era partita la chat.
La difesa, rappresentata d’ufficio dall’avvocato Marco Fanciulli, aveva sostenuto che non vi fossero sufficienti prove per ricollegare i fatti all’imputato, visto che il computer era stato trovato in una casa dove c’erano tre inquilini. Secondo gli inquirenti, però, i contatti on line erano partiti in precedenza da un appartamento dove viveva il solo imputato. Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico