La psicologa Giorgia Cannizzaro: «Tanta fragilità nascosta nei ragazzi. Ma che senso ha mettere 2?»

Seduti in terra, disposti in circolo, e lei, Giorgia Cannizzaro, con loro. In ascolto. La psicologa del servizio dell’Elisoccorso della Regione passava di lì per...

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Seduti in terra, disposti in circolo, e lei, Giorgia Cannizzaro, con loro. In ascolto. La psicologa del servizio dell’Elisoccorso della Regione passava di lì per caso, suo figlio frequenta la stessa scuola, lo scientifico Savoia.

Come prima mossa, ha stravolto la scena del dramma.

«Quella quindicina di ragazzine e ragazzini aveva appena visto gettarsi dalla finestra della classe il loro compagno. Non potevano restare lì, fermi, seduti al banco».

 

Era necessario cambiare il contesto di riferimento?

«Sì, per lasciare fluire i loro turbamenti».

Da quel cenacolo di mutuo soccorso cosa affiorava?

«Tristezza, disperazione, alcuni erano fisicamente provati, in preda all’ansia».

Impotenti?

«Era il sentimento prevalente, tra quei giovani. Rispetto a quel gesto erano impreparati, sia nella dinamica, sia nella sostanza. Subito mi hanno detto che quel 14enne non aveva problemi, né nella vita né a scuola. Erano confusi».

Come ha ricomposto quell’implosione emozionale?

«Spiegando che ci sono fragilità non percepibili, motivo per cui gli adulti hanno il compito di vigilare. C’è molto disagio nell’adolescenza. Emerge dalla valutazione clinica».

Decripti il concetto.

«Disattenzione, disturbi alimentari, attacchi di panico più marcati. Difficoltà che affiorano anche nell’affrontare il percorso scolastico, dove le pressioni prevalgono sulle risorse».

Un quadro che degenera?

«È vero che a quell’età è lo studio a creare problemi, ma da tempo le sollecitazioni sono un peso grave. I grandi sono più fragili, offrono poco sostegno: sono iperpresenti e iperprotettivi, ma non nel modo corretto».

Cioè?

«Latitano sui punti fermi e sulle regole; esagerano sulla richiesta di essere performanti, competitivi. Il tutto in assenza di strumenti, di esempi».

La dimostrazione sul campo?

«Non posso pretendere da mio figlio di non farsi distrarre dal cellulare e dai social mentre studia, se io, per prima, li uso mentre lavoro».

Dalla prospettiva della cattedra, come valuta la mossa estrema di buttarsi giù dal terzo piano?

«Mettere un 2, che senso ha? Premetto: la scuola dev’essere considerata un’istituzione autorevole e i genitori devono esserne partner. Tuttavia, lo ammetto: non sempre questa alchimia viene favorita».

Indichi il punto di non ritorno, il fallimento.

«Quando il metodo di valutazione avvilisce, mortifica. Non si deve infierire sulle fragilità dei ragazzi. Al contrario, si deve far leva sulle potenzialità. I prof, forse, non sono formati ad affrontare questa nuova generazione».

Un giudizio che massacra, rinnega la formazione?

«È la perdita del senso del limite, il segno della sofferenza, generalizzata e diffusa, del sistema educativo. Sarebbe bastato un 4. Si deve stabilire se si vuole seguire la teoria darwiniana, secondo la quale i migliori ce la faranno; oppure se si vuole perseguire una prospettiva di civiltà e umanità. Ribadisco: 2 o 0 non significano niente, umiliano e basta, se poi ci metti sopra la nota cosa vuoi dimostrare? Non è meglio tradurre in un momento di costruzione e di crescita?».

È la vertigine generata dalla mancanza di dialogo.

«I ragazzi la rimarcano, sempre. L’elemento positivo è che, nonostante la giovane età, riescono a discernere, a scollegare il giudizio dall’evento: per loro un brutto voto non può scatenare una tragedia. Dev’esserci di più. Molto di più».

 

 

 

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Corriere Adriatico