ANCONA - Soldi derivati da attività illecite ripuliti in Svizzera e poi investiti in operazioni commerciali condotte sul territorio marchigiano. Per gli investigatori...
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I reati contestati a vario titolo sono riciclaggio e autoriciclaggio con l’aggravante mafiosa. Il broker finanziario, 44enne fabrianese ma residente in Romania, è stato fermato dai militari a Bologna. I due geometri, uno di 58 e l’altro di 67 anni, a Fabriano. Mentre il 50enne Domenico Laurendi, imprenditore di Sant’Eufemia di Aspromonte ma residente da tempo a Fabriano, è stato raggiunto dal fermo mente si trovava in provincia di Reggio Calabria. Il nome dell’uomo considerato un affiliato del clan “Alvaro” spicca anche nella maxi operazione antimafia, denominata “Eyphemos” e condotta dalla polizia di Reggio Calabria, che ieri ha portato all’arresto di 65 persone, alcune finite in carcere, altre ai domiciliari. Per quanto riguarda il versante marchigiano, l’indagine è partita nel 2018 da una segnalazione fatta agli investigatori da Bankitalia in merito a sospetti rapporti economici tra i geometri marchigiani e Laurendi, attivo sia nel mondo dell’imprenditoria edile che della fibra ottica (di qui, il nome dell’operazione “Oper Fiber”, che nulla ha a che fare con l’omonima azienda).
Attraverso rilievi tecnici, accertamenti patrimoniali e scambi di informazioni con la procura di Reggio Calabria, gli investigatori hanno rilevato un complesso meccanismo di triangolazioni finanziarie tra Italia, Inghilterra e Svizzera - che ha coinvolto altri professionisti sottoposti ad indagine, seppur non destinatari del provvedimento di fermo - mediante cui ingenti somme di denaro riconducibili alla cosca calabrese venivano riciclate e poi investite in operazioni condotte sul territorio della provincia di Ancona. Per la procura dorica, diretta dalla dottoressa Monica Garulli e affiancata nell’inchiesta dal pm Daniele Paci, tra queste operazioni sospette c’è l’acquisto di un capannone industriale situato alla Baraccola del valore di 1,5 milioni di euro. L’immobile, dove lavora un’azienda estranea ai fatti, è stata sottoposta a sequestro preventivo. Stando alle indagini, il capannone sarebbe stato comprato da una società riconducibile ai due geometri grazie a parte dei soldi derivati dalle attività della cosca e poi fatti “ripulire” in Svizzera con l’intervento del broker.
Gli investigatori hanno parlato di un cifra che si aggira sui 320mila euro per concludere l’atto di vendita. Quei soldi, in qualche modo, sarebbero tornati nelle mani del clan calabrese. Come? Per la procura, sarebbero state compilate dagli acquirenti del capannone false fatture per un valore di 140mila intestate a società calabresi. Un’altra operazione monitorata dalla procura, e mai arrivata a compimento, riguarda la compravendita di un terreno parzialmente fabbricabile situato a Genga e nella disponibilità dei geometri. Stando all’ipotesi accusatoria, sarebbe dovuto finire nelle mani del calabrese come termine ultimo dell’operazione di riciclaggio. Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico