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ANCONA - Istanza di scarcerazione respinta. Deve rimanere a Rebibbia Claudio Pinti, il 38enne jesino condannato in primo grado e in appello a 16 anni e 8 mesi di reclusione per aver trasmesso dolosamente l’Hiv alle sue ex compagne: Romina Scaloni, l’ultima fidanzata che l’ha smascherato e fatto arrestare, e prima ancora alla compagna Giovanna (da cui aveva avuto una figlia) morta nel giugno 2017 per patologie legate al virus. A rigettare la richiesta del difensore Massimo Rao Camemi è stata la Corte d’Appello di Ancona.
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Il legale di Pinti, da quasi quattro anni recluso in carcere dopo l’arresto eseguito dalla Squadra Mobile, aveva chiesto di trasferire il suo assistito ai domiciliari, a casa dei genitori, con tanto di braccialetto elettronico.
Pochi giorni fa, il responso della Corte: Pinti deve rimanere a Rebibbia. Stando ai giudici, tutti gli approfondimenti sanitari eseguiti, «pur non potendo disconoscere la gravità della patologia di cui è affetto Pinti, hanno confermato l’ottima gestione eseguita dalla struttura sanitaria interna al carcere di Rebibbia sull’imputato, costantemente seguito attraverso visite interne ed esterne».
«Senza contare – hanno proseguito i giudici – come sia dirimente l’adesione alle terapie antiretrovirali che, talvolta, anche nell’ultimo periodo il paziente ha rifiutato». Rilevata la pena residua (oltre 14 anni), essendo «forte il pericolo di recidiva» e l’atteggiamento di Pinti «volto a negare o comunque a minimizzare la gravità dei fatti», la richiesta dei domiciliari non è stata accolta. Le tesi negazioniste verso la malattia, secondo la difesa, sarebbero state ampliamente riviste da Pinti nel corso del periodo carcerario. La Corte d’Appello, nella sentenza, aveva scritto: «l’imputato negava non solo l’iter terapeutico consigliato a lui e alla compagna, ma l’esistenza stessa della malattia». È pendente il ricorso per Cassazione: la data dell’udienza non è stata ancora fissata.
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Corriere Adriatico