Lo chef Cedroni: «Le Marche stellate
​al profumo di mare e antiche spezie»

Moreno Cedroni
Moreno Cedroni
di Lucilla Niccolini
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Giovedì 8 Giugno 2017, 16:47
Con due stelle Michelin appuntate sulla casacca candida da chef, Moreno Cedroni è portabandiera della cucina marchigiana e testimonial di una tradizione che lui ha saputo rinnovare, pur venerandola. Messaggero del gusto nostrano nel mondo, s’è conquistato una rinomanza che profuma di mare e di antiche spezie domestiche, con un pizzico di fantasia e una buona dose di creatività.

I tre suoi motivi personali per accettare di essere testimonial della sua regione?
«Il primo è ovvio: qui sono nato e cresciuto, qui ho imparato l’arte e sviluppato il mio lavoro. Secondo: perché spero, con i miei piatti, di avvicinare a questa terra chi non la conosce, di mettere in luce il suo nome. Infine, per fare la mia parte come rappresentante dei buoni prodotti, non solo ai fini del turismo, ma anche per un migliore apprezzamento delle qualità della nostra gente».

Per lavoro, lei ha girato il mondo. Quando dice che è delle Marche, cosa si sente rispondere?
«Credo che si debba distinguere. Andando indietro nel tempo, ci fu un’epoca, fino agli anni Ottanta, in cui riuscivo a spiegare da dove venivo solo dicendo “sotto Rimini”. Poi, negli anni Novanta, potevo riferirmi al porto di Ancona, scalo per la Grecia e la Croazia. Dal 2000 in poi, se dico Senigallia, sanno tutti dov’è».

Un po’ di merito è anche suo, giusto?
Ride di gusto. «Non solo mio! È merito di tutta l’enogastronomia di questa terra, che si è fatta conoscere, con picchi a Senigallia, d’accordo. La buona ristorazione è un tamtam determinante, e quando in una città due locali compaiono con due stelle sulla Guida Michelin, diffusa e molto considerata in tutto il mondo, è chiaro che si va a guardare su Google Map dov’è, poi si cerca di andarci. Un buon nome, che facciamo di tutto per mantenere alto, anche perché diffonde l’immagine Marche».



È scontato che il prodotto più pregevole dell’enogastronomia marchigiana per lei sia il pesce?
«Non è proprio così. Io cucino anche la carne. E comunque per me la cucina marchigiana è quella dell’infanzia, in cui dominavano le carni bianche, degli animali da cortile. Per me le Marche hanno il profumo del pollo in potacchio e del coniglio in porchetta, che mangio sempre molto volentieri. Ricette storiche che mi ricordano mia nonna».
Riflette e sorride, poi mormora divertito. «E poi il piccione ripieno. Anche se, sia detto sottovoce, lei lo cucinava sempre troppo, così io più che il piccione ricordo il sapore del ripieno. E poi i nostri grandi vini, che negli ultimi anni sono cresciuti moltissimo di qualità. Loro sono i nostri veri testimonial, quelli che viaggiano più di noi tutti e portano questa terra e il nome dei marchigiani con sé».

Nelle Marche, un posto cui non rinuncerebbe mai?
«Potrei dire Portonovo, ma sarebbe scontato… Ecco, le Grotte di Frasassi! Ci sarò stato almeno dieci volte e non mi stanco di tornarci, un posto che mi emoziona sempre e consiglio di andarci a tutti gli stranieri che passano per i miei locali, alla Madonnina del Pescatore e al Clandestino».

Come descriverebbe il “carattere marchigiano”?
«Per anni ho sentito dire che siamo “chiusi”, un concetto che forse era corretto fino a poco fa. Adesso siamo più propensi ad aprirci. E siamo cordiali, interpreti di un turismo autentico, non artefatto, come a volte è quello romagnolo. Noi contemporanei ci siamo confrontati col mondo, ci siamo aperti, a nuove esperienze, pur conservando l’umiltà naturale, la laboriosità, il culto della famiglia… aperti, ma quanto basta, s’intende, e rispettosi con tutti. Ecco, la nostra è un’ospitalità calibrata, non invadente».



Che cosa, secondo lei, rappresenta un’eccellenza marchigiana, in qualunque settore? Cucina a parte...
«Potrei citare tante cose, dal vino alle scarpe. Ma un momento, la cosa più eccezionale per me sono i cappelli di Montappone. Li adoro, e ogni tanto ne metto uno».

Anche il suo cappello da cuoco è di lì?
«No, ma mi ha dato un’idea. Mi sa che gliene commissionerò uno, a quegli artigiani bravissimi!».

In quale altro posto del mondo ha trovato analogie con questa terra?
«Mi faccia pensare: l’Oriente assolutamente no, per colori e odori. Le Americhe neanche, l’Africa anche meno. Restiamo in Europa, in luoghi come il nostro legati al cibo e al vino. Vediamo… ecco, San Sebastian e in generale i Paesi Baschi: mare e colline, prodotti eccellenti di terra e di mare. Sì, un’analogia interessante».

Suggerirebbe a uno straniero di venire ad abitare qui?
«Lo spazio c’è, siamo relativamente pochi. Dico sempre che da noi si gode di una grande qualità della vita, l’ideale, dopo il business. Altro che Ibiza e la Romania, i paradisi dei pensionati!».

Se dovesse nominare qualche personaggio che meglio rappresenta le Marche nella loro storia?
«Sarò campanilista, ma inevitabilmente il pensiero mi corre a due personalità di Senigallia, pur di ambiti diversissimi: Pio IX Mastai Ferretti e Mario Giacomelli. Di Pio IX mi è rimasto impresso quell’aneddoto che si narra nella mia città: un certo Fagiolin raccontava in dialetto senigalliese di essere andato in Vaticano a trovare il suo antico amico d’infanzia, e di essersi inoltrato per le grandi sale chiamando il Papa a gran voce col nome di battesimo, Giovanni. Finché, braccato dalle guardie svizzere, trovò il Papa e riuscì finalmente a riabbracciarlo. Mi fa sempre molto ridere».

Cosa trova nelle Marche che andrebbe valorizzato di più?
«L’ospitalità. Se ci facciamo conoscere fuori di qui, poi dobbiamo offrire una rete omogenea, per quanto possibile, di alberghi al top. E poi i trasporti. Le infrastrutture sono state responsabili di un certo isolamento. Se tutti si fermano in Romagna o in Toscana, e non scendono da noi, un motivo ci sarà...».

Cosa non si deve perdere delle Marche? Qual è il valore minacciato dalla modernità?
«Il contatto con il territorio e l’eccellenza dei suoi prodotti. Ai giovani bisogna far passare il messaggio che devono avere cura di questa terra, rispettarla e salvaguardarla dalle alterazioni. E per fortuna sempre più marchigiani prendono coscienza di questo. Ma anche chi ci governa dovrebbe darci una mano, far crescere in ogni direzione il patrimonio che il tempo ci ha consegnato».

Un prodotto Marche doc per eccellenza?
«Senza dubbio il mosciolo di Portonovo, che è già presidio Slow Food».
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