«Io, sopravvissuto per caso

3 Minuti di Lettura
Venerdì 26 Agosto 2016, 05:00
LA STORIA dal nostro inviato
ARQUATA DEL TRONTO «Io da qui non mi muovo. Nè adesso, nè mai. Stanotte ho dormito all'aperto su un giaciglio di legna e roba varia. Mi sono arrangiato, è andata dai. Spero che mettano i prefabbricati prima possibile». Enzo è uno dei tanti Rendina che viveva a Pescara del Tronto, la frazione di Arquata rasa al suolo dal terremoto. Tra le case diventate macerie c'è pure la sua («Eccola là, lungo la vecchia Salaria, poco prima delle fontane. È rimasto un lembo triangolare di parete, il resto giù tutto»), quella per cui negli anni Ottanta ha scelto di lasciare Roma. Proprio da quelle mura che si sono aperte come fogli di carta strappata inizia il racconto della notte maledetta, dell'apocalisse a Pescara, del paese che non esiste più. «Dormivo al piano terra, a un certo punto sento un rombo che cresce e tutto quel che vedo trema: capirai, al buio, con il pavimento che muove è già tanto riuscire a stare in piedi. Pochi secondi e vengono giù primo e secondo piano, sotto il peso del tetto. Non sono riuscito a capire il perchè, ma c'è un tratto di solaio che sopra di me è rimasto integro: un quadrato di tre metri per tre. Vorrei uscire ma tra polvere, calcinacci e terrore non so dove girarmi. Quando la prima scossa si ferma, trovo un muro aperto tra camera e lavandino e salto fuori da questa specie di finesta». Difficile descrivere la scena visiva e uditiva che matura davanti a sè: il silenzio spezzato dal guaito dei cani, delle grida crescenti delle persone, dai rumori dei muri che si spezzano, si piegano. «Non ci ho fatto caso subito - dice Enzo - ero focalizzato sulla casa. Avevo poca roba addosso, mi sono detto, rischio, adesso rientro, prendo qualcosa . E così ho fatto, in mezzo alle macerie ho trovato queste due cose per vestirmi (una canottiera bianca, una blusa militare, una tracolla rossa, jeans, ai piedi un paio di sandali da trekking) soprattutto sono riuscito a trovare il cellulare, volevo avvisare mio fratello Ivo che sicuramente a Roma aveva sentito la prima scossa fortissima».
La dimensione del tempo dilatato
È un tempo indefinito quello che passa dopo le 3.36 del 24 agosto, nella dimensione del disastro. Dilatato e allo stesso tempo rapidissimo, immerso nell'adrenalina. E nella paura. «Sì perchè la terra tremava ancora. Ho cominciato ad andare in giro - continua Enzo - e dove sentivo grida, richieste di aiuto cercavo di adoperarmi. Ma non si capiva niente, io stesso ero frastornato, incredulo davanti a tutto quello che vedevo». Quanto tempo sarà passato prima di vedere i soccorsi è un concetto sfuggente che appartiene solo alla dimensione del disastro. «Mi ricordo che vagando per la strada - ricorda Enzo - ho incontrato il pezzo di parete dal quale spuntavano le gambe dei due regazzini (poi identificati in Tommaso Reitano, 13 anni, e Arianna Masciarelli, 15 anni). C'era la gente in strada. Mi ricordo che poco più avanti del giardinetto, dove si biforca la strada, sulla sinistra, ho sentito delle voci sotto le macerie. Sono passati dei forestali e ho chiesto aiuto: c'erano tre persone dentro una buca, erano sprofondate. Le hanno tirate fuori vive». E così di casa in casa, mentre la luce usciva definitivamente dalle spalle della montagna mettendo a fuoco disastro e morte delle persone incrociate fino alla sera prima. «Colombo, per esempio. Colombo se n'è annato, capisci? Chi era Colombo Cafisi? Vai a fartelo raccontare Colombo - arringa con le lacrime agli occhi, la voce incrinata - una persona che conoscevano tutti nella vallata. Uno che aveva paura del terremoto ed era scampato dalla prima scossa, anche se aveva problemi a respirare. C'erano un po' d'amici che erano pronti a tirarlo fuori. Poi è arrivata la seconda scossa e se l'è portato via. Poveraccio».