Morte di Lucentini, raddoppia l'inchiesta
"Aiutato l'omicida del carabiniere"

Morte di Lucentini, raddoppia l'inchiesta "Aiutato l'omicida del carabiniere"
di Ilaria Bosi e Egle Priolo
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Domenica 30 Agosto 2015, 18:24 - Ultimo aggiornamento: 8 Settembre, 12:06

PERUGIA - Leggerezze, silenzi. Forse anche ritardi.

Ma soprattutto mezze verità. Troppe, secondo la procura di Spoleto, che dopo la morte dell’appuntato dei carabinieri tolentinate Emanuele Lucentini (ucciso il 16 maggio scorso dal collega Emanuele Armeni, in carcere con l’accusa di omicidio volontario) ha aperto un secondo fascicolo in cui si ipotizza il reato di favoreggiamento personale.

Nel registro degli indagati sono stati iscritti i nomi di cinque carabinieri, che con il loro atteggiamento avrebbero in qualche modo cercato di coprire Armeni, che invece da quella mattina ha sempre parlato di un incidente.

Che le indagini sull’uccisione di Emanuele Lucentini fossero partite col piede sbagliato sono gli stessi militari ad ammetterlo nelle settimane successive al tragico fatto avvenuto nel cortile della caserma di Foligno.

«Abbiamo fatto un casino delle madonne», è l’esclamazione di uno di loro durante una conversazione intercettata il 9 giugno, tre settimane dopo la morte di Lucentini. E ancora: «Siamo partiti col piede sbagliato noi, capito? Perché se noi partivamo subito con le cose come stavano... avevamo già finito... te lo dico io... invece noi dobbiamo fa i fenomeni».

Uno scambio di pareri, forse uno sfogo, in cui però si parla chiaramente anche dei difficili rapporti che una situazione gestita in questo modo può aver creato con i magistrati di Spoleto. Che vogliono andare fino in fondo e capire cosa sia successo quella mattina, dopo il rientro in caserma di Armeni e Lucentini dal turno di notte. E mentre le indagini della squadra mobile di Perugia e del Ros di Roma si muovono anche alla ricerca del movente (l’attenzione si starebbe focalizzando pure su un episodio accaduto qualche sera prima dell’omicidio, durante un servizio di controllo), i procuratori Sandro Cannevale e Michela Petrini non vogliono lasciare zone d’ombra neanche su chi potrebbe aver voluto portare avanti la teoria (sconfessata poi dai periti della procura e al momento da tre giudici) del colpo accidentale partito dalla pistola mitragliatrice in mano ad Armeni.

La simulazione. I cinque carabinieri finiti sotto inchiesta sono alcuni dei colleghi che si sono occupati dell’inizio delle indagini e che hanno partecipato ai primi interrogatori: ci sarebbe anche una intercettazione che avvalora il tentativo scomposto di portare fino in fondo la tesi dell’incidente. Come finirà e se, e per quanti, alla fine ci sarà un processo lo racconterà solo il prosieguo dell’inchiesta. Ma di questo eventuale «aiuto» hanno già parlato anche i giudici del Riesame che hanno negato la libertà all’appuntato che, con l’avvocato Marco Zaccaria, invece continua a parlare di tragico incidente. Nelle 21 pagine con cui i giudici Marco Verola, Luca Semeraro e Daniele Cenci hanno detto no alla scarcerazione, infatti, non solo si ricorda «la simulazione oggettivamente fasulla» eseguita davanti ai pm con un modello diverso di M12 rispetto «all’S2 usato dall’indagato», ma anche come Armeni potrebbe aver pensato di uccidere in caserma perché «luogo più sicuro».

«L’esecuzione del delitto all'interno della caserma - scrivono i giudici del Riesame - avrebbe consentito all'Armeni di godere di un trattamento tutt'altro che ostile dai suoi commilitoni, come dimostrato nei fatti dalla circostanza che la gran parte dei presenti, subito dopo il fatto, ha pensato più che a condurre delle immediate indagini ed a prestare i soccorsi a Lucentini, a recarsi dall'Armeni». E ancora, in riferimento alla necessità di farlo restare in carcere per non inquinare le prove, il Tribunale delle libertà sottolinea come Armeni «è stato già in grado di sviare le indagini, per altro godendo di un oggettivo aiuto da parte di alcuni militari». Quelli che adesso sono nel mirino della procura di Spoleto.

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