Come l’attore che si sottrae alla parte perché sente traditi il suo impegno e la sua esperienza. In mezzo la confusa Tommasi che già in passato ha regalato scarse trame alla Philip Dick: le sarebbe stato impiantato un microchip nel corpo, che poi è causa di tutti i suoi disturbi, che l’ha portata a un ricovero in clinica e all’abuso di psicofarmaci.
Quindi dal microchip si arriva alla «Ciociara» in un giro di camera, con un ricorso compulsivo ai tribunali – già in passato aveva fatto condannare un produttore di film porno.
Si potrebbe, attraverso il corpo di Sara Tommasi, riassumere molto del nostro Paese e delle ossessioni che lo attraversano, in un corto circuito diarchico: pubblico/privato – professionisti/società civile, che si confondono e mischiano, fino a sovvertire anche uno dei pochi campi lavorativi dove il merito è innegabile: quello del porno. In una degenerazione con aggiunta di repressioni violente che diventa la chiave del merchandising contemporaneo, dove la merce – in una declinazione occidentale – è il corpo, usato non per fame ma per fama. Facendo coincidere in una sola inquadratura: ethos, ethnos ed eros. Tirando fuori la vocazione condominiale che l’Italia da sempre si tira dietro e che ormai domina tutto: dai romanzi ai partiti.
Sara Tommasi incarna la parte debole e confusa di questa vocazione, porta se stessa fino all’estremo – pagandone le conseguenze – e ci costringe a guardare l’aspetto misero e ridicolo di chi non ha attitudini ma solo derive. In un tempo logoro, rifà Boccaccio senza stile, privo di erotismo e incapace di generare la curiosità che il sesso chiede; passa da Brancati ma non riesce a fasciare la carne né il desiderio, divenendo scarno pruriginoso racconto di tribunale; e si assesta in una zona di gioco al ribasso dove l’iconografia più azzeccata è lo stereotipo.