Terremoto in Nepal, il racconto di Antonini
"Così Gigliola è morta sotto la valanga"

Terremoto in Nepal, il racconto di Antonini "Così Gigliola è morta sotto la valanga"
di Pia Bacchielli
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Giovedì 21 Maggio 2015, 15:55 - Ultimo aggiornamento: 16:14

ANCONA - “Non c’è destino. Né caso. Abbiamo un compito e io forse devo ancora scoprire quale è. E può darsi che non lo capirò mai. Ma se sono vivo, significa che qualcosa ancora devo fare”.

Se il cielo ha dato un segnale, è stato quella mattina del 25 aprile a Langtang, il villaggio spazzato via dal terremoto che ha devastato il Nepal e che ancora si fa sentire. Giuseppe “Pino” Antonini, 53 anni, direttore della Scuola forre e canyon del Corpo nazionale del Soccorso alpino, è scampato per miracolo alla frana che si è staccata dalla montagna dopo la prima scossa. Cinquanta secondi di terrore.

“Ho vissuto il terremoto di Ancona nel ’72, il più forte che abbia mai sentito. Ma quello era un’altra cosa”, racconta. Con lui Gigliola Mancinelli, 50 anni, anestesista e istruttore medico del Soccorso alpino, Oskar Piazza, 55 anni, trentino, vice direttore della Scuola forre e tecnico di elisoccorso, e Giovanni “Nanni” Pizzorni, torrentista di 52 anni di Recco. “Stavamo esplorando le forre.

Eravamo alla terza spedizione, primi italiani”.

Il gusto dell’avventura corre nel sangue di persone come loro. Abituati a rincorrere l’estremo “perché qualcuno prima o poi ci deve provare”. “Come gli scienziati”, dice Antonini o come Colombo che parte per l’ignoto. Pino, Giglio, Oskar e Nanni amici e compagni da una vita. Gigliola aveva chiesto di cambiare il turno delle ferie per partecipare all’avventura. E all’ospedale di Torrette gliel’avevano concesso. Quella matta spericolata che si ficca sempre nelle situazioni più strampalate.

Ma è stato grazie a lei e a Pino che, un anno fa, uno speleologo di Stoccarda rimasto ferito a 980 metri di profondità è stato tratto in salvo. “Non ci sono molti medici in grado di risolvere situazioni come quelle. Serve una preparazione adeguata, sia atletica che psicologica”, racconta Pino.

Ora Giglio non c’è più, inghiottita dalla valanga. Così come Oskar, morto in seguito alle ferite. Dedicata a lei nascerà una associazione “Gigliola con noi” finalizzata alla ricerca di fondi per una borsa per studenti di medicina in difficoltà. “Gigliola si era fatta da sola - racconta Pino - lavorava notte e giorno per mantenersi agli studi. Giusto ricordarla così”.

Gigliola, Pino, Oskar e Nanni sono nel lodge in attesa che il tempo migliori. Pino e Giglio sono al piano di sopra e guardano un film al pc. La scossa li sorprende alle 11.56 ed è di 7.8 di magnitudo. Crollano le pareti esterne ma la struttura regge. “Ci chiamiamo l’un l’altro, siamo tutti ok. Contenti di essere illesi”, ricorda Pino. Ma pochi secondi dopo un rumore come un ruggito della terra fa capire che l’incubo non è finito.

“Ho capito subito che si era staccato il serraco”, racconta Pino. Si tratta di un fronte immenso di oltre un chilometro per due, trecento metri di spessore. “Speriamo non sia tanto grande, speriamo sia lontano, speriamo si fermi”, pensa Pino. Invece la massa di ghiaccio e neve investe la vallata viaggiando a 300, 400 km all’ora. “E’ finita”, pensa Pino. “Pino, cosa facciamo?”, chiede Gigliola. E sono le sue ultime parole. “Verrò sepolto, speriamo di morire prima”, è il pensiero di Pino. Dopo un minuto, il silenzio assoluto.

Nanni è vivo, Oskar ferito. Pino riesce a liberarsi perché è rimasto con la testa e un braccio fuori dalla mole di detriti che l’ha investito. Sanguina, ha una gamba che gli fa male perché è rimasta bloccata sotto una trave. Gigliola è riversa a cinque, sei metri davanti a lui. “Scalzo, mi sono precipitato su di lei, speravo fosse svenuta. Ma non respirava, non aveva più il battito. L’ho abbracciata e ho pianto”. Il resto è cronaca. Con Pino che riesce a mettere in salvo Oskar e a raggiungere faticosamente l’ospedale di Kathmandu.

“Cosa mi ha aiutato? C’era qualcuno vivo. Ero sopravvissuto e dovevo fare qualcosa. E la vita deve andare avanti. Tante volte sono arrivato a un passo dalla morte. Ma ho vissuto quei momenti con freddezza e distacco, senza timore. Ora sono vivo. E’ toccato a me ma non per questo mi ritengo fortunato. Tutto ha un senso e nulla appartiene al caso. Forse significa che ancora qualcosa devo fare. Tornato a casa, ho voluto ritrovarmi fra i miei amici. Tre giorni dopo, ho avuto la necessità di vedere come ero messo e sono tornato in montagna, sui Sibillini. Stasera (ieri, ndr) partirò per il Molise. Il giorno dei funerali di Gigliola è stato un bel momento. Abbiamo fatto festa in una casa di campagna dove eravamo soliti riunirci. Da noi si usa così. Con Oskar e Gigliola il soccorso alpino ha perso due tra le dieci persone al mondo con una visione avveniristica. Sarà difficile colmare il vuoto. Volevo tornare a recuperare le salme, ma ci voleva l’elicottero e si rischiava il linciaggio. Si camminava in mezzo ai morti e i vivi erano dei disperati che avrebbero fatto di tutto per essere portati via da quell’inferno. Prima di partire per Kathmandu mi sono trascinato, dolorante e pieno di sangue rappreso, fino al luogo dove avevo lasciato Gigliola, coperta di stracci e teli di plastica perché gli avvoltoi non ne facessero scempio. Le ho sfilato le catenine che teneva al collo per portarle ai figli. L’ho abbracciata e sono tornato al punto di raccolta. Poi, mi sono steso al sole”.

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